Mourinho: “Per anni ho voluto vincere per me stesso, ora voglio farlo per i calciatori”

Il 29 marzo si è tenuto un incontro tra il cardinale José Tolentino de Mendonça, Archivista e Bibliotecario della Santa Romana Chiesa, e l’allenatore della Roma, José Mourinho. A favorire il dialogo tra i due è stato il legame di entrambi con il filosofo portoghese Manuel Sérgio, in passato professore universitario del tecnico portoghese. Di seguito alcune battute del colloquio, riportate da “L’Osservatore Romano”, quotidiano della Santa Sede.

Su Manuel Sérgio, filosofo portoghese e professore universitario di Mourinho.
“Arrivo all’Università, Facoltà di Educazione Fisica e Sport, già perfettamente consapevole di quello che voglio per me: allenamento e alto rendimento. Con tutta l’ansia di apprendere ciò che mi interessava, la prima disciplina che ebbi il primo giorno di università fu «filosofia delle attività corporali» con il professor Manuel Sérgio. E io esco dalla prima lezione e mi chiedo: a quale scopo? Lui comprese in poco tempo che avevo bisogno di essere aiutato, di essere orientato. Ed effettivamente mi dice in maniera estremamente concreta e diretta: chi capisce soltanto di calcio, di calcio non capisce nulla. È un rapporto che non è terminato, è un rapporto che ancora continua e un processo permanente di apprendimento, e una delle sfide maggiori che noi come allenatori, leader di uomini, chiamiamoli come vogliamo, abbiamo oggigiorno è proprio quella di come essere leader, come ottenere il massimo, perché, ok, l’obiettivo è l’alto rendimento sportivo, ma come tirare fuori il massimo da quegli atleti, che non sono atleti ma uomini per Manuel Sérgio. Mi ha influenzato molto nel senso che ogni persona è diversa dall’altra, in questo caso ogni calciatore è diverso dall’altro, e l’espressione di ciascuno di loro in campo in termini di prestazione è fondamentalmente la conseguenza di un’empatia che si crea tra due uomini: nella fattispecie, tra l’allenatore e i calciatori. Questo tipo di empatia per me è fondamentale. Ho trasferito questo bagaglio di esperienze nel mio lavoro degli ultimi 20 anni, nello sport ai massimi livelli. Ho sempre avuto questo come principio basico”.

Sul mettersi in gioco e sulla possibilità di fallire.
“Le esperienze buone, quelle meno buone, non hanno prezzo. A volte penso che l’unica cosa che non mi piace molto dell’avanzare degli anni è che ho un dolorino qui, un dolorino lì, che mi sveglio un po’ più stanco, ed è l’unica cosa che davvero non mi piace dei miei 59 anni, ma se devo compararmi come persona, come allenatore, che sono due cose diverse, bene se devo compararmi con 20 anni fa… mi dispiace molto non aver avuto 20 anni fa le esperienze, buone e meno buone, e le conoscenze che ho oggi. Una cosa è essere un allenatore di 35 anni di calciatori di 30, altra cosa è essere un allenatore di 59 anni di giocatori di 25. Mi sento in una posizione così privilegiata e mi sento così felice in questa prospettiva. Quando uno è giovane, è all’inizio della carriera, pensa di sapere tutto. E quando oggi vedo le generazioni più giovani con questo tipo di pensiero, non lo critico… ci sono passato da lì, la maturità è una cosa fondamentale”.

Sulla “dittatura dei tempi stretti” nel calcio.
“Lo sport di alto rendimento conosce momenti di vera crudeltà. Siamo pagati per vincere. Gli atleti, non gli uomini, sono pagati per vincere. Stiamo parlando di alto rendimento, e a volte ci sono decisioni nella gestione di una squadra che hanno qualcosa di crudele: non c’è il tempo di lasciare maturare, di lasciare crescere.  L’errore si paga. Se commetto un errore, lo pago con l’esonero. Se un giocatore commette un errore, lo paga non giocando a beneficio di un altro. C’è qualcosa di crudele, ma non possiamo lasciare che la natura del nostro lavoro si sovrapponga a quello che siamo come persone. Una cosa difficile per me da accettare è lo spreco del talento, è una cosa che ancora oggi dopo 30 anni di calcio, è difficile per me da accettare. A volte, però, lo spreco di talento è legato al percorso di vita che alcuni giocatori hanno avuto”.

Il rapporto con vittoria e spiritualità.
“Per molti anni ho voluto vincere per me stesso, mentre adesso sono in un momento in cui continuo a voler vincere con la stessa intensità di prima o addirittura maggiore, ma non più per me, ma per i giocatori che non hanno mai vinto, voglio aiutarli. Penso molto di più al tifoso comune che sorride perché la sua squadra ha vinto, alla sua settimana che sarà migliore perché la sua squadra ha vinto. Continuo a essere un “animale da competizione”, per così dire, continuo a voler vincere come o più di prima, ma prima mi concentravo su me stesso. Nel percorso verso una partita, intendo l’uscita dall’hotel, la discesa dal pullman, l’arrivo allo stadio, la passeggiata verso lo spogliatoio, la camminata dallo spogliatoio al campo prima dell’inizio della gara c’è molta spiritualità in tutto questo, non è mai una routine. Lo ritengo di una bellezza enorme e ritengo che il giorno che smetterò di allenare, che spero non sia presto, sarà forse la cosa che più mi mancherà: sentire questa dimensione che mi porta verso direzioni che non ho mai condiviso con nessuno, e che oggi forse condivido per la prima volta. Camminare verso la partita e parlare con Dio.

La spiritualità nel mondo sportivo e calcistico.
“Il plus viene sempre un po’ da quell’area che non si tocca, ma si sente, è astratto. Ritengo, per esempio, che per la preparazione di una competizione di altissimo livello, che comporta pressione, responsabilità, dove bisogna superare o trascendere, occorra metterci qualcosa in più di quello che abbiamo allenato, a cui ci siamo preparati, e questo qualcosa in più ritengo che sia molto legato alla propria spiritualità. Quel qualcosa in più può essere anche pensare tutti insieme alle persone che desiderano fortemente che oggi vinciamo. E chi sono queste persone: quelle che ci amano, quelle che noi amiamo, quelle che amano il club e i suoi simboli. Penso che nei momenti chiave devi scavare nel tuo profondo e non aggrapparti esclusivamente alla preparazione. Non basta l’aspetto tattico, tecnico, fisico, mentale: serve altro”.

Il rapporto tra sport e relazioni umane.
“Talvolta capita di osservare giovani non molto talentuosi e in maniera obiettiva si afferma che probabilmente non arriveranno ai massimi livelli. Tuttavia, la relazione che si instaura tra il gioco e i più giovani è qualcosa che reca un contributo assolutamente fantastico. È tutta una questione educativa, e nelle scuole, nelle fasce d’età più basse, e nello sport di formazione, questo deve essere l’asse centrale di sviluppo, perché i bambini che un giorno non saranno sportivi professionisti, saranno appassionati di sport. I bambini che non saranno in campo, saranno fuori, ed è tutto legato… il bambino che cresce in uno spogliatoio con amici, con cui si creano legami forti nello sport e nel gioco, cresce con altre razze, religioni, quando sarà adulto, questa base sarà presente. Un giovane italiano cresciuto con un africano arrivato in Italia come rifugiato da una di queste situazioni che abbiamo per il mondo, credete che un giorno sugli spalti sarà aggressivo, razzista, xenofobo? Non lo sarà. La scuola e lo sport di formazione hanno un ruolo davvero importante”.

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