C’è stato un momento, prima del secondo infortunio, in cui la Roma aveva pensato davvero di vendere Zaniolo. Era solo un’idea, certo, e nessuno può sapere che cosa sarebbe successo se a Nicolò non fosse saltato il ginocchio per la seconda volta in quella partita con la Nazionale, facendo cambiare i piani di chi aveva sul serio pensato di bussare a Trigoria con il portafoglio pieno di buone intenzioni. Certezze sul futuro di Zaniolo nessuno può averne, oggi. Né Pinto, appunto, né nessun altro. L’ultimo ad averne, nel calcio, di certezze, pareva essere Commisso: «Ho parlato con Vlahovic, vuole restare, adesso si concentrerà sulla Fiorentina e spero di rinnovargli presto il contratto». Era il 7 settembre dello scorso anno, appena cinque mesi fa. Lo stesso Commisso che strappò applausi arrivando a Firenze, promettendo di non vendere Chiesa, ma la promessa durò appena un anno. E se prendiamo ad esempio il presidente della Fiorentina è solo perché è l’ultimo in ordine di tempo ad essere caduto nella trappola delle facili promesse.

Anche a Roma, scrive Daniele Lo Monaco, se vogliamo guardare al nostro giardino, abbiamo fatto il pieno di opportunistiche manifestazioni d’amore, di bellicosi proclami di vittoria, di vibranti giuramenti di fedeltà, parole a vanvera poi spazzate via dal vento del realismo. Chi scrive, ad esempio, aveva fermamente creduto (e persino compartecipato per un po’) all’idea del club illuminato che pareva aver avuto Pallotta, prima che anche il bostoniano rivelasse le sue sistemiche fragilità e la sua incapacità di affidarsi a qualcuno in grado di portare avanti seriamente l’idea originaria.

Eppure, forse anche attraverso la delusione dei mancati risultati degli ultimi anni, il tifoso romanista adesso sembra mediamente più maturo. Non più incline ai facili innamoramenti, non più così ottimista all’inizio di ogni stagione, non più così ingenuo da credere al primo proclama registrato in sala stampa. Eppure ancora totalmente calato nella realtà romanista, come testimonia lo stupefacente attaccamento ai colori mostrato al botteghino con l’infinita striscia consecutiva di sold out in casa e in trasferta. Così, mediamente, la frase di Pinto su Zaniolo è stata recepita dalla stragrande maggioranza dei tifosi per quello che era: l’onesta ammissione di un dirigente ai tempi del Covid. Tanto oggi Zaniolo è della Roma e ce lo godiamo noi, a Milano l’hanno regalato e a Torino possono al massimo sognarlo: poi domani si vedrà. Quelli che invece sembrano ormai stralunati abitanti di un altro pianeta sono quei pifferai che da martedì si sono sbizzarriti a definire prezzi, scenari e contorni di una trattativa che esiste solo nella fantasia delle loro grigie giornate, in un parossistico crescendo di cui si sentono orgogliosi protagonisti. Scrivono fieri e poi vanno a contarsi i like su twitter. Farebbero tenerezza, se non fosse che loro e i loro maestri (quelli che “le bombe di mercato”, quelli che “a me risulta”, quelli che “signorsì signor editore”) hanno distrutto la credibilità di un’intera categoria professionale.

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