L’analisi di Roma-Lazio: scacco in tre mosse, il capolavoro di Mourinho

Di Daniele Lo Monaco – Roma e Lazio domenica pomeriggio avrebbero potuto giocare anche 51 ore, non solo i 51 minuti effettivi nei quali si è sviluppata la gara, e il risultato forse sarebbe stato lo stesso, magari si sarebbe ulteriormente incrementato, ma è davvero improbabile che pur continuando a giocare all’infinito la Lazio sarebbe riuscita a cambiare il destino della sfida. Tra il 1° e il 90º minuto non c’è mai stato realmente un momento in cui neanche il più sfrenato tra i loro tifosi abbia potuto credere di vedere cambiare l’esito della gara. La palla l’ha tenuta la Lazio, con percentuali che nell’ultimo quarto d’ora di gioco hanno sfiorato l’assoluto (74%) eppure la squadra biancoceleste non faceva altro che palleggiare lontano per poi avvicinarsi e rimbalzare addosso a quella romanista. Che a sua volta, forte del vantaggio già maturato, non aveva alcun interesse a cambiare l’abbrivio e per farlo non scendeva mai al di sotto della massima concentrazione possibile. È stato anche questo a far la differenza: favoriti anche dalla scarsa compattezza biancoceleste, i giocatori della Roma hanno sbagliato pochi passaggi, hanno mantenuto alta l’intensità delle giocate e nei momenti più delicati hanno usato marcature personalizzate quasi a tutto campo togliendo qualsiasi punto di riferimento alla manovra laziale. Di contro, la Roma i suoi varchi li ha trovati più facilmente, sia a difesa avversaria schierata, sia nelle transizioni. Anche perché la Lazio non è mai apparsa davvero compatta, anzi era moscia e sfilacciata come se non si aspettasse avversari così solidi. Forse hanno peccato di presunzione in questo senso.

Quante soluzioni offensive

Il panorama tra le occasioni da gol poi concretizzate, quelle svanite per un soffio e quelle solamente potenziali della Roma rispetto a quanto ha costruito la Lazio è più imbarazzante del risultato. È vero che la Roma ha sbloccato il punteggio sfruttando (per l’11ª volta in stagione) un calcio d’angolo, ma al tiro dalla bandierina si era arrivati grazie alla prima di una serie di azioni che si sono vissute sulla stessa falsariga, e cioè con la riconquista bassa del pallone, l’immediata transizione con ricerca della profondità e relativa finalizzazione. Sul tema, la Roma è la squadra migliore dell’intera Serie A. Il secondo gol è frutto invece di una sovrapposizione esterna sfruttando una specifica carenza della Lazio che spesso accentra i suoi quattro difensori per difendere la porta lasciando varchi laterali su cui ha difficoltà a difendere per la tendenza a marcare la palla più dell’avversario: esemplare in questo senso lo smarcamento di Abraham non seguito da Marusic a rifinire in maniera impeccabile l’azione della seconda rete. Il gol di Pellegrini è poi una prodezza individuale di un giocatore, ma è un valore anche questo. Non a caso, dalla stessa mattonella, nel secondo tempo Cataldi ha mandato ai suoi tifosi il souvenir del pallone calciato. Né si può dimenticare che a metà del secondo tempo la Roma ha avuto la più nitida delle occasioni da rete della ripresa con uno strepitoso lancio di Cristante alle spalle della linea difensiva biancoceleste troppo avanzata, ma Abraham stavolta ha sprecato l’assist con una conclusione affrettata quando avrebbe invece avuto la possibilità di superare il portiere in dribbling. Un campionario completo di soluzioni offensive che hanno messo in difficoltà Sarri sin dall’avvio.

Lo scacco in tre mosse

L’allenatore della Lazio a fine partita dopo aver fatto un poco elegante riferimento al possibile rigore non concesso da Irrati (ma chi continua a parte dal parlare di gomitata di Ibañez è in chiara malafede dopo che i replay televisivi hanno mostrato semmai un’imprudente sbracciata), ha detto che in questo derby c’è stato assai poco di tattico, quasi a voler scaricare tutta la responsabilità della sconfitta sull’atteggiamento mentale dei suoi giocatori. E invece è stato proprio tatticamente che la Lazio è stata imbrigliata. Sin dalle pressioni alte ma non estreme portate dai tre attaccanti romanisti sui quattro difensori, con il supporto di Cristante e Oliveira in seconda battuta e l’immediata aggressione dei quinti fino ai terzini ogni volta che se ne è aperta la possibilità. Quando invece si è difesa bassa la Roma è stata perfetta nelle chiusure difensive in prima e in seconda battuta con i tre centrali abilissimi a muoversi rapidamente da una parte all’altra a coprire gli spifferi interni e a chiudere i corridoi esterni. Solo con un paio di rifiniture sbagliate di Zalewski e un paio di infilate di Lazzari nella seconda parte del secondo tempo la Roma ha rischiato qualcosa ma è stato davvero il minimo scotto pagato in una partita in cui si temevano grandi sofferenze e che invece si è sviluppata senza troppi patemi. E se proprio si devono individuare dei fattori decisivi allora ci viene da pensare che lo scacco matto di Mourinho a Sarri sia stato dato in tre mosse: la scelta di Zalewski con le spalle coperte da Ibañez (e non da Kumbulla), nonostante il precedente incerto di Udine, la scelta di inserire un centrocampista in più (Oliveira) al posto di un attaccante come Zaniolo, e infine la scelta di puntare su un quadrilatero di centrocampisti dai piedi buoni e dalla grande esperienza internazionale per sostenere in fase di non possesso le possibile giocate dei centrocampisti della Lazio.

La differenza con Udine

L’ingresso del bambino, come lo chiama Mou, è stata una mossa in qualche modo attesa ma che resta comunque sorprendente e che, è onesto riconoscerlo, ha dimostrato una volta di più perché Mourinho è lo Special One. Rispetto a Udine, infatti, Mourinho ha cambiato un uomo (Zaniolo out, Mkhitaryan in) e ha confidato sul fatto che la Lazio avrebbe provato a fare la partita e dunque difficilmente Zalewski sarebbe stato preso d’infilata con grandi spazi aperti alle spalle. Ed è capitato proprio questo: il ragazzino polacco è stato bravissimo a contenere Felipe Anderson scegliendo sempre il tempo giusto negli interventi per poi ripartire negli spazi che la Lazio ha gentilmente messo a disposizione. E quando è stato saltato a coprirgli le spalle è stato Ibañez. A Udine anche le pressioni sono state più sfilacciate forse per la diversa disposizione degli attaccanti o forse perché semplicemente le motivazioni non erano così forti. E poi c’è un ultimo fattore, stavolta con un nome e un cognome: Henrikh Mkhitaryan. Semplicemente il miglior giocatore della Roma. E a Udine lui no, non c’era.

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