Un canto di libertà

Di Tonino Cagnucci

Per anni i tifosi della Roma hanno cantato il loro inno prima di ogni partita all’Olimpico, ma quando lo hanno fatto per Roma-Empoli poi ne hanno parlato tutti. Che è successo di così speciale domenica pomeriggio? L’inno è stato cantato senza musica, sì, ma non è solo quello perché ricordo altre volte in cui lo si è cantato a cappella (penso a Lione, penso soprattutto all’Old Trafford già sullo 0-5, vero sempre alla fine): credo che sia stata la forza e la bellezza di una risposta collettiva a un divieto. Credo che sia la sinfonia di un NO giusto a un NO senza senso. Un grosso SÌ al sentimento. Uno sporcheremo i muri con un altro NO a un no minuscolo, specioso, risibile se non proprio ridicolo della Lega Italiana. Credo che quell’inno fatto abortire da regole di un calcio che impedisce il canto ma non fa niente per tamponi, esami di italianistica di Suarez, conti turbogonfiati per vincere scudetti in stadi vuoti, multiproprietà, marchette ai procuratori, tv che non riescono a trasmettere… abbia smosso profondamente il dna romanista, i cui filamenti sono stati ricamati all’opposizione.

La Roma, che è un sentimento preesistente alla sua formalizzazione in un’Associazione Sportiva, nasce nel 1927 per rispondere a uno strapotere, la Roma nasce “contro”, come una mazzafiondata all’establishment, come una risposta da dare non solo a domande sbagliate, ma anche come parola per discorsi ancora da fare. C’è la Roma fa differenza. C’è una squadra di calcio coi nomi, i colori e il simbolo di questa città: ecco perché nasciamo. E abbiamo la nostra casa, Campo Testaccio, in un quartiere operaio; e vinciamo una Scudetto in tempi di guerra, riuscendo a portarlo per la prima volta sotto la linea gotica quando l’Italia si stava un’altra volta dividendo sotto e sopra quella linea. Anche quell’inno di domenica, dell’altra settimana, di questi anni, di sempre, è nato a dicembre del 1974 come risposta a qualcosa che a Roma era antistorico: lo Scudetto della Lazio. E poi meglio uno da lupi che 100 da Agnelli.

Noi non prevediamo la vittoria a tutti i costi, noi prevediamo la Roma a tutti i costi. Senza prezzo. Il nostro inno è innanzitutto ostentazione di un sentimento non mortificabile da qualsiasi evento. Pensa una regoletta della Lega Italiana. Davanti al bavaglio di un sentimento, i tifosi della Roma si sono alzati e hanno detto “aspetta, boni un po’, adesso vi facciamo sentire”. Tu mi dici di stare zitto? E allora io canto più forte. Disgraito. Ma non è ripicca o ribellismo, è pura cura di una cosa cara, pura manifestazione di un sentimento senza niente di narcisistico: condivisione autentica. Comunità. È: “Questo noi siamo, questo lo cantiamo e nessuno può impedirci di farlo”. Invictus. L’inno di domenica è stato così tanto nostro perché è stato un canto di libertà. E la libertà – cara Lega – è partecipazione. Grazie però perché è così che un canto cantato da sempre è stato ascoltato meglio da tutti. Un po’ come la siepe di Leopardi che impedisce di vedere l’orizzonte, ma è così che gli fa immaginare l’Infinto. Voi più che una siepe ci avete messo un cartello “non calpestare le aiuole” lì dove c’era cemento, noi con l’inno – oltre quel prato verde – ci abbiamo messo solo l’infinito. L’infinito amore per la Roma.

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